PARTIRE E’ UN PO’ MORIR…
Diciamoci la verità. In Italia c’è stata sempre una profonda idiosincrasia nei confronti di chi si muove. Sia che arrivi da fuori – fenomeno per il quale il nostro popolo si è guadagnato il titolo del più razzista d’Europa – sia verso il connazionale che decide di emigrare all’estero, che spesso è dipinto alla stregua di un traditore della patria. Ma è anche vero che la qualifica di razzista contrasta con la fama, che pure godiamo, di gente ospitale e amichevole. Allora che cosa siamo? Siamo una società chiusa, che si pasce della sua chiusura opponendo a chi la osserva o ha semplicemente a che farne l’orgoglio della sua cultura e della sua tradizione oppure, al contrario, mostriamo il volto di una popolazione profondamente depressa e insicura, giusta l’ultima fotografia che ha scattato il Censis.
Tra le ultime preoccupazioni c’è quella dei giovani che abbandonano il paese. Ciò che impressiona è l’approccio superficiale al problema da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica che sembra sottilmente scaricare sui primi vere o presunte responsabilità del degrado, in primo luogo, di alcune aree del Paese come il Mezzogiorno. A questa si aggiunge l’accusa di mandare in fumo le risorse spese per la loro istruzione. A questo punto la prossima mossa che rimane da fare, dopo aver provato senza successo a fare rientrare i “cervelli in fuga”, sarà quello di ostacolare l’uscita dei giovani, magari imponendogli, come fanno alcuni paesi sudamericani, di rientrare entro tre mesi.
Riguardo al primo punto si omette di dire – anche perché chi guida il vapore oggi appartiene a quella generazione – che il distacco del Meridione d’Italia dal resto del paese si è accentuato proprio in quel trentennio in cui i “giovani” decisero di “restare”, ossia dagli anni Settanta del secolo scorso quando cessarono i grandi flussi migratori del Dopoguerra e gli inizi di quello attuale, dacché sono ripresi (cfr. Cottarelli, I sette peccati capitali dell’economia italiana, p.122). Orbene proprio i giovani “rimasti”, in prevalenza “sessantottini”, figli della contestazione e avanguardie di una società migliore, avanzando nella scala sociale e facendo parte della classe dirigente, sono poi diventati anch’essi baroni universitari, primari ospedalieri con la propensione ad affossare il sistema sanitario, politici e i funzionari responsabili del malcostume politico e amministrativo. Riguardo alla perdita dell’investimento sull’istruzione è la stessa OCSE a ricordarci che, riguardando questo tra Stato e famiglie quasi il cinque per cento del PIL, alla fine comunque sarebbe vanificato dal fatto che i giovani rimangono disoccupati o sono sottoutilizzati (cfr. Attanasio e Ricci in L’Europa dei talenti, Idos, p. 50).
A tutto questo c’è un solo rimedio, quello dei paesi più avanzati, ossia il ricambio. A fronte di giovani che escono altrettanti ne dovrebbero entrare a rimpiazzarli. Possibilmente con analogo, se non superiore livello, di formazione. In questa direzione sembrano orientate appunto le economie più importanti al mondo, inclusa e sempre di più la Cina che da decenni form i propri cervelli in Usa e in Europa. La proporzione tra gli stranieri e i residenti, c’informa l’Economist di due numeri fa, a Toronto, Sydney, New York e Londra è rispettivamente del 46%, 45%, 38% e 38%, che poi aggiunge che immigranti o loro discendenti hanno fondato in USA ben il 45% le aziende contenute nell’elenco della rivista Fortune (tra cui Apple, Google e Levi Strauss) ed egualmente che due quinti dei vincitori nordamericani di premio Nobel dal 2000 sono immigrati. Alla fine dei conti due terzi di skilled migrants si indirizzano verso gli Usa, il Canada, l’Australia e la Gran Bretagna, oggi le mete più agognate da chi cerca il successo nella professione e nella vita.
L’autorevole settimanale britannico liquida come semplicistico il cavallo di battaglia dei nemici dell’emigrazione in Italia, ossia che essa impoverisce il paese di origine. A parte che gran parte di questi immigranti, soprattutto dai paesi più poveri, rimette soldi ai loro familiari, per cifre che superano il volume degli aiuti internazionali a loro destinati (le rimesse verso i paesi di medio e basso reddito hanno raggiunto nel 2018 il livello di 259 miliardi di dollari secondo la Banca Mondiale, il 10% in più dell’anno precedente), c’è che molti ritornano con nuove idee dando vita a iniziative di successo (per inciso lo sviluppo tecnologico dell’India, secondo la Kauffman Foundation, si deve integralmente a questo fenomeno, anche nella misura in cui i “rientrati” mantengono contatti con i vecchi colleghi all’estero, traendo da questi nuove idee e maggiori informazioni). In generale, poi, a seguito di un grande sondaggio internazionale della Gallup dello scorso anno, che ha quantificato nel 4% della popolazione mondiale la volontà di cercare fortuna in paesi diversi dal proprio, alcuni economisti hanno dimostrato che se ciò avvenisse, raddoppierebbe la ricchezza mondiale.
In Italia, generazioni radicate nel territorio, prive di conoscenza del resto del mondo, sono naturalmente indotte ad adagiarsi sull’esistente, imparano nel tempo a preferire la sicurezza al rischio, contando anche sulle certezze che il sistema garantisce, favorendo la permanenza di vecchie prassi e abitudini mentre i migranti sono più predisposti alla novità e a mettere in gioco se stessi.
E allora, perché allora non considerare gli italici, gli italodiscendenti e le ultime leve degli expat come una risorsa cui non solo fare ponti d’oro per un eventuale rientro, ma anche con cui stare collegati in modo sistematico per il benessere e l’avvenire del paese di origine o di riferimento?
(Aldo Aledda)
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